giovedì 18 novembre 2010

Corpi di donna usati nelle campagne razziste



Sono le immagini della campagna contro l’immigrazione di una Svizzera sempre più razzista.

Un razzismo consumato sui corpi delle donne. Perfette, magre, più o meno ariane, quelle a sinistra, le svizzere doc. Robuste, tracagnotte, obese, sgraziate, fumatrici, vestite da casalinghe meridionali o da donne rom, quelle a destra, le straniere. Nel primo caso c’è l’immagine di ordine, bellezza, candore, l’acqua nitida. Nel secondo caso l’acqua assume il colore sporco dell’immigrazione e sembrano le acque del nilo o di uno qualunque dei fiumi in cui le donne si immergono vestite.

Il corpo di una straniera si distinguerebbe dunque per abbigliamento trasandato, come se la povertà fosse una colpa, e per la grassezza. Lo stesso paragone che facevano i nazisti in epoche lontane quando dovevano imporre un razzismo lombrosiano fatto di parole e simboli che non avevano senso.


Quella alla vostra sinistra è una delle immagini che venivano mostrate in accostamento ad immagini di donne bianche dai corpi longilinei, chiari, perfetti per dimostrare l’inferiorità delle donne nere. Ed era solo il primo passo verso una omologazione dei corpi che insiste tutt’ora a colpi di pubblicità e campagne di industrie dell’estetica che sono pienamente complici mentre veicolano modelli femminili unici dei corpi femminili. Mentre tutte le altre si sentono inadeguate, insicure, non meritevolidel risuscitato orgoglio nazionale.

L’italia ha ricominciato a usare con chiarezza questo metro di comunicazione in moltissimi casi. Ne cito uno tra tutti: l’orgoglio della bellissima donna della crocerossa che sfilava davanti al premier, presentata dal quotidiano Libero come il simbolo dell’alternativa concreta al governo prodi.

Ma restiamo in Svizzera, questo luogo apparentemente lindo e perfetto dove l’anno scorso campeggiava per le strade di Zurigo un cartellone con gli immigrati che pescavano documenti da un cesto offerto dalla sinistra, giusto per dire che la sinistra è cattiva a differenza della destra che sarebbe buona. Un rovesciamento di valori, lo stesso che vediamo in Italia, dove la cattiveria e l’egoismo vengono eletti a meriti e l’altruismo o la bontà diventano difetti.
ecisamente in Svizzera, come in gran parte dell’europa più a nord e dell’italia settentrionale, non si respira una buona aria. Pensate soltanto che qualche settimana fa a Zurigo hanno fatto un vero e proprio raduno antifemminista. Partecipato dai misogini italiani, annunciato con proclami come “Kampf gegen den Feminismus, ovvero “guerra contro il femminismo”, a celebrare la reunion di una sedicente associazione antifemminista di un asse svizzero/tedesca, con gli italici alleati in prima fila (nostalgici mussoliniani?), per rappresentare la stessa serie di deliranti questioni che vengono diffuse in italia, america, europa, dai soliti che raccattano uomini disperati, padri separati, per portare avanti campagne contro le donne, campagne negazioniste sulla violenza maschile contro le donne, tesi falsabusiste e il solito copione di proposte legislative a revisione del diritto di famiglia e a restaurazione di privilegi per i maschi a danno di donne e bambini. Il raduno alla fine pare si sia celebrato sullo stile carbonaro con pochissimi presenti, nessuno dei quali ha voluto mostrare la propria faccia a parte l’organizzatore.

Discriminazione razzista e discriminazione contro le donne vanno di pari passo ed è questo quello che avviene in europa e che ci spazzerà via se non reagiamo con impegno e determinazione.

Noi siamo meridionali e di razzismo culturale, anche in rapporto ai nostri corpi, ne abbiamo subito tanto. Eravamo descritte come brutte, nere e pelose. Conta poco che greci e normanni abbiano sparso per il meridione carnagioni chiare, capelli biondissimi e occhi azzurri. Restiamo comunque, e con orgoglio, africane, arabe, straniere, vittime di una annessione geografica e culturale che continua ancora adesso.

Siamo figlie di quel sud che viene usato come discarica e che se si ribella viene massacrato dagli eserciti che vengono inviati dai ministri lombardi. Siamo quelle che indossano con orgoglio taglie più alte della 42 e che vivono la fisicità senza stitichezza e senza complessi. Non fosse per le pubblicità che dicono alle donne meridionali che quei corpi sono sbagliati, che non sono sufficientemente ariani. Non fosse per le campagne politiche, reazionarie e fasciste che usano i corpi delle donne per dare l’idea di un governo corrispondente all’estetica delle sue ministre e deputate.

Non so voi, ma certamente all’immagine che riprende spunto dalla Svizzera che si arricchiva con il lavoro degli immigrati, italiani meridionali tra gli altri, io preferisco l’immagine delle donne che parlano, stanno insieme, fanno sorellanza, si rilassano, con sembianze che somigliano di più a quelle di una vecchia nonna o di una zia. Corpi perennemente offesi che pure vengono usati come stereotipo della donna materna.

Il punto è che un abbraccio morbido è più bello di un abbraccio ariano. Ma soprattutto spiegatemi perchè ultimamente se quattro donne vanno a fare il bagno nude vengono denunciate per atti osceni in luogo pubblico. Se in Italia si parla di decoro, si impone l’allungamento della minigonna e sono crocifisse le donne che vanno in giro svestite, qual è la differenza tra noi e altre donne sottoposte ad altro genere di patriarcati?

Questa estate farò un bagno con la mia nudità africana contro il razzismo. E se mi denunceranno o mi inviteranno a indossare uno dei tanti burqa italiani, dirò che sono gli svizzeri che non sopportano le donne vestite …


DA femminismo-a-sud

martedì 9 novembre 2010

Sgomberi dei campi Rom: denunciati la Moratti e De Corato


Un gruppo di cittadini chiede di procedere contro sindaco e vice-sindaco di Milano per abuso d'ufficio, interruzione di servizio pubblico e danneggiamento

Letizia Moratti e Riccardo De Corato denunciati per gli sgomberi dei Rom a Milano. Trentanove cittadini, assistiti dagli avvocati Gilberto Pagani e Anna Brambilla, hanno presentato denuncia nei confronti del sindaco e del vice-sindaco di Milano per i reati di abuso d'ufficio, interruzione di servizio pubblico (relativamente all'obbligo scolastico di minori) e danneggiamento, con l'aggravante di averli commessi per finalità di discriminazione e di odio etnico e razziale. E' la prima volta che un gruppo di cittadini milanesi, riuniti nel Gruppo di Sostegno Forlanini e da alcuni genitori che seguono le famiglie Rom di Rubattino, presentano una denuncia contro l'amministrazione pubblica per gli oltre 360 sgomberi di campi Rom attuati senza alcuna alternativa abitativa dal Comune di Milano negli ultimi tre anni. Cinque milioni di euro sono stati spesi per la 'sicurezza' e gli sgomberi, in assenza totale di progetti di accompagnamento e integrazione, con il corollario dell'interruzione di percorsi scolastici per i bambini Rom.

Il Gruppo di sostegno Forlanini è nato all'epoca dell'occupazione, da parte di centinaia di immigrati, in prevalenza del Corno d'Africa, dell'ex caserma militare di viale Forlanini: donne e uomini in fuga dalla guerra, dalla repressione e dalla fame, per la maggioranza in possesso del permesso temporaneo per motivi umanitari, ma sempre discriminati e obbligati a stare nascosti tra i topi e l'immondizia. Dopo lo sgombero del 20 aprile 2007, nella campagna retrostante si vennero a insediare alcuni piccoli nuclei di Rom, composti da coppie di anziani, famiglie allargate con bimbi piccoli, ragazzi soli, spesso reduci da altri sgomberi o in fuga dalla Romania.

Da due anni il Gruppo svolge la sua attività umanitaria all'interno del piccolo campo in collaborazione con associazioni di volontariato milanesi, acquistando generi di prima necessità, svolgendo accompagnamento sociale verso il pronto soccorso o gli ambulatori medici, fornendo sostegno per le pratiche burocratiche e l'approccio scolastico dei bambini, portando tende, coperte, vestiti.


Il 20 ottobre scorso si è svolto l'ultimo sgombero in viale Forlanini. Le baracche e le tende sono state distrutte dalle ruspe, e gli abitanti del campo vagano per la città. Alcuni di loro sono rimasti, costretti a fuggire all'alba prima dell'arrivo della polizia per evitare l'ennesimo sgombero.

da peaceReporter

venerdì 5 novembre 2010




Il 9 novembre alle ore 8,30 presso la Corte d’Appello di Lecce avrà luogo una delle ultime udienze del processo relativo all’affondamento della nave Kater I Rades.

La vicenda di cui oggi si dibatte risale al 28 marzo 1997, quando, in un clima di isteria generalizzata contro gli albanesi che arrivavano dal mare, una nave militare italiana (la Sibilla) speronò in acque internazionali la carretta del mare Kater I Rades, provocandone l’affondamento con la morte di circa ottanta persone, molte delle quali donne e bambini, in fuga dalla rivolte scoppiate in Albania in seguito alla crisi delle “Piramidi Finanziarie”.

Nonostante le testimonianze dei sopravvissuti che da subito hanno denunciato lo speronamento ad opera della nave Sibilla, oggi si tenta di archiviare quella tragedia come un errore accidentale provocato da chi era al timone della Kater I Rades.
Un tentativo, che oltre ad affossare la verità storica, nasconde le evidenti responsabilità politiche del Governo Italiano e dei Vertici della Marina Militare.

Quella tragedia, infatti, fu una delle conseguenze della politica dei respingimenti generalizzati inaugurata in quegli anni dal governo italiano.
Quella stessa politica che ha trasformato il mar Mediterraneo in uno dei più grandi cimiteri senza lapidi della storia recente (l’ONU denuncia che in 10 anni, sono state più di 10.000 le persone morte nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa).


Uno Stato democratico non può accettare che in nome della presunta sicurezza di un Paese, si innalzino barriere che impediscono ogni forma di accoglienza e che violano il diritto internazionale.

La politica dei respingimenti, in aperta violazione con la Convenzione di Ginevra, nega il principio non refoulement che è uno dei principi cardine del diritto internazionale del rifugiato. Un principio che sancisce il divieto per gli Stati nazionali di respingere il richiedente asilo o il rifugiato verso luoghi dove la sua libertà e la sua vita sarebbero minacciati.

L’Italia, così come è avvenuto in passato con gli accordi bilaterali con il governo albanese, continua oggi, con il trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione siglato con la Libia, a non rispettare La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (art.13 diritto alla libertà di movimento) e i diritti dei richiedenti asilo.

giovedì 7 ottobre 2010

VIOLENZA. L’Appello di Marea per la libertà delle donne migranti

VIOLENZA. Basta sangue nel nome della tradizione e della religione.

Pubblicato il 04 ottobre 2010 da Marea

(Imola) Siamo di nuovo di fronte alla morte di una donna, e al grave ferimento di un’altra per mano di un familiare. Siamo di nuovo di fronte al femminicidio e alla violenza in nome e per conto del senso di possesso maschile delle vite femminili. Siamo di nuovo di fronte al criminale intreccio tra ossequio della tradizione patriarcale e negazione dei diritti inalienabili della persona: come nel terribile caso di Hina Salem e di Sanaa Dafani, anche qui la parte maschile di una famiglia di migranti pakistani ha cercato di mettere a tacere la ribellione di una giovane contro una visione fondamentalista della religione e della tradizione, che vuole ogni donna destinata a vivere senza poter decidere di sé e della sua libertà.

Vicino a Modena un migrante pakistano, di fronte all’ennesimo rifiuto della figlia destinata ad un matrimonio combinato si è accanito, uccidendola, prima sulla moglie, che con coraggio appoggiava la figlia ventenne, e poi con l’aiuto del figlio ha cercato di sopprimere la ragazza, che per fortuna, pur gravemente ferita, non è morta sotto le percosse.

Ancora una volta la disobbedienza alle leggi maschili è stata pagata con il sangue e con la vita.

In questa vicenda però - si legge in un documento a firma Tiziana Dal Pra – Associazione Trama di Terre (Imola), Monica Lanfranco – Rivista Marea, Dounia Ettaib – Associazione Daris – c’è un fatto importante: una madre ha cercato di sostenere le ragioni di libertà di sua figlia. Pensiamo sia da questo fatto che possiamo trarre un grande segnale.

Moltissime donne migranti guardano alle libertà femminili, conquistate con lotte durissime, con speranza e come ad una grande opportunità: le giovani, ma non solo, sperano e sognano di poter studiare, lavorare, non sottostare alle violenze patriarcali e religiose, di scegliere liberamente se e quando diventare mogli e madri. Per molte di loro vivere in Italia sotto una pesante tradizione significa perdere quei diritti che in alcuni dei loro Paesi di origine sono ormai legge.

Se l’Italia è davvero un Paese libero deve dare opportunità soprattutto a queste speranze, che sono quelle delle nuove e future cittadine italiane.

A chi oggi prenderà spunto da questo drammatico episodio per rilanciare la crociata contro la migrazione, colpendo indiscriminatamente tutta la comunità migrante, diciamo che questa non è la strada giusta, che è razzismo. Vogliamo vivere in un Paese accogliente, capace di aiutare chi è più vulnerabile e dove la cittadinanza sia un diritto per chiunque, a prescindere dalla provenienza geografica.

A chi invocherà la doppia morale sostenendo che la tradizione va sempre rispettata, che le culture diverse vanno tutte seguite senza alcuna critica (e che per questo non è legittimo intervenire in faccende ‘private’ quando ci sono conflitti che riguardano le scelte delle donne nelle famiglie) diciamo che né la tradizione né la religione possono diventare un’arma mortale contro chicchessia.

I diritti delle donne non sono ancora considerati diritti umani in molti Paesi del mondo.

Troppo spesso, quando si tratta di diritti delle donne, e in particolare di corpo, di sessualità, di relazioni tra donne e uomini, la difesa dei diritti cede il passo ai moltissimi se e agli infiniti ma del relativismo culturale, persino nel nome della democrazia e della tolleranza.

Accogliere, incoraggiare, difendere il rifiuto da parte delle donne migranti dell’oppressione (della quale sono vittime nel nome della tradizione e della religione) non solo le aiuterà a trovare la loro libertà, ma offre a noi italiane, che abbiamo costruito o avuto in eredità i preziosi diritti di autodeterminazione, la possibilità di riaffermarli ed estenderli come gesto politico di responsabilità e di civiltà.

La violenza contro le donne è barbarie. La libertà delle donne è civiltà.

sabato 18 settembre 2010

Infibulazione, stato etico e diritti di cittadinanza


da: Pensiero Selvaggio
Un articolo di Repubblica rilancia il periodico "allarme infibulazione". Emergono almeno due problemi: il fatto che vi sono donne maggiorenni che vorrebbero sottoporsi volontariamente all'operazione e che sono costrette, visto che ciò in Italia è illegale sempre e comunque, a rivolgersi alle "cliniche" clandestine o ad andare all'estero, ed il fatto che è difficile, specie nelle condizioni attuali, tutelare le bambine nate in Italia (ma non italiane) operate più o meno legalmente all'estero.

Punto primo: c'è una parte di donne maggiorenni, evidentemente minoritaria eppur esistente, che chiede volontariamente di poter subire questo genere di operazione. In assenza di alternative legali e sicure queste donne devono oggi scegliere tra l'operazione clandestina (pericolosissima, ed in cui il "medico" rischia fino a 12 anni di galera) o il viaggio all'estero (le maggiorenni possono farsi infibulare nelle cliniche autorizzate in diversi paesi europei, come la Germania). Un pò come per l'aborto un tempo, e come per eutanasia e fecondazione assistita oggi: lo stato etico proibisce, e le donne (rese non pienamente titolari del loro corpo) sono costrette a rivolgersi alle macellaie (rischiando la pelle e pagando l'operazione a peso d'oro, visti i rischi) o ad andare all'estero. Se qualcuno provasse a proporre restrizioni simili per interventi ben più effimeri ma pericolosi quali tatuaggi, piercing, lampade o ritocchi estetici, chissà quanti (giustamente) insorgerebbero (eppure stiamo sempre parlando di modificazioni permanenti e volontarie del proprio corpo).

Secondo problema: le bambine nate in Italia da genitori migranti non possono essere sottoposte legalmente a questi interventi in Italia ma vengono regolarmente "operate" nei paesi di origine. Ed in questo caso la legge è impotente: questi atti ricadrebbero eventualmente sotto la responsabilità dei paesi dove le operazioni vengono messe in atto, dove tutto ciò è spesso legale (o non perseguito/non perseguibile). Non dobbiamo inoltre dimenticare che queste bambine non sono nemmeno cittadine italiane: un conto è proibire l'infibulazione sul territorio italiano, un conto "proibire" che le baby cittadine nigeriane o algerine vengano infibulate altrove. In questi casi, infatti mancano tutti i requisiti per poter avere voce in capitolo: stiamo pur sempre di atti cui vengono sottoposte cittadine straniere al di fuori dei confini del nostro paese.

Ma c'è una possibilità. Se a queste bambine nate in Italia fosse concessa la cittadinanza italiana alla nascita, infatti, il discorso potrebbe essere impostato in maniera diversa: queste bambine verrebbero sì sottoposte ad operazioni all'estero ma potrebbero comunque beneficiare di una serie di tutele che lo stato deve garantire ai suoi cittadini. Se dotate della cittadinanza, queste ragazze potrebbero ad esempio ricadere sotto la protezione primaria dello stato che potrebbe chiedere conto ai genitori responsabili di questo atto di menomazione appellandosi al fatto che le bambine sono minori italiane e che come tali godono di un set di tutele forti che lo stato deve far rispettare. La Repubblica Italiana potrebbe rendersi seriamente garante del diritto di queste sue baby cittadine perseguendo i genitori che "non vigilano" sull'incolumità dei minori resi italiani. Sarebbe già qualcosa.

Ad oggi, tuttavia, queste bambine non sono legalmente che individui di passaggio. Per loro si può invocare soltanto la generica tutela dei "diritti umani"; e suona un pò "imperialista" l'imporre a quelle che oggi sono ancora cittadine nigeriane o marocchine una visione del mondo italiana. A coloro che si indignano per l'infibulazione lancerei quindi questa provocazione: lavoriamo per far ricadere seriamente queste giovani vittime sotto l'ala protettrice della Repubblica Italiana riconoscendole come cittadine a pieno titolo.

Ed una volta che sono maggiorenni, lasciamole libere di fare del loro corpo ciò che meglio credono.

*****************************************************************************

Infibulazione: "Nella capitale
curate oltre 10mila donne"

DA: Repubblica.it

In Italia la legge vieta le mutilazioni genitali femminili, ma ancora molte donne continuano a sottoporsi a questa pratica. L'allarme di Aldo Morrone, direttore dell'Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie nella povertà (Inmp): "Il fenomeno non si ferma. Ci sono ancora medici che agiscono nell'illegalità'"


E' un dramma nascosto quello delle donne immigrate vittime di mutilazione genitale femminile (Mgf) in Italia. Solo nella capitale dal 1996 sono state curate in diecimila. A lanciare l'allarme sul fenomeno è Aldo Morrone, direttore dell'Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie nella povertà (Inmp) all'ospedale romano San Gallicano.

Anche se in Italia la legge vieta questa pratica, la situazione è sempre più preoccupante. Secondo alcune stime recenti ogni anno almeno 600 bambine sono a rischio. "Nel nostro Paese ci sono ancora medici e le anziane delle comunità che, a pagamento, praticano l'infibulazione - spiega Morrone - ce ne accorgiamo solo quando le donne vengono al nostro ambulatorio e osserviamo danni recenti che fanno pensare a un intervento di questo genere".

Spesso le mutilazioni sono fatte senza anestesia, con coltelli, lame di rasoio, vetri rotti o forbici. L'emorragia che ne consegue viene arrestata tamponando la ferita con garze e bendaggi o, nei casi migliori, con punti di sutura. Le conseguenze sono infezioni, cheloidi, tetano e addirittura infertilità, oltre a problemi nei rapporti sessuali e durante il parto.

La legge
A quattro anni dalla legge (n.7-01-2006) che vieta l'infibulazione è ancora difficile fare un bilancio sulla sua efficacia in Italia. Nel mondo più di 130 milioni di donne e bambine hanno subito mutilazioni genitali (Mgf) e solo in Italia si calcola che siano 40.000. E' il dato più alto in Europa, che in totale conta 500mila vittime.

Nel nostro paese non esistono dati ufficiali sul questo fenomeno 'nascosto' visto che chi pratica questa usanaza può essere punito con una pena che può arrivare a 12 anni di reclusione. Spesso il problema è quello delle vacanze nei paesi d'origine. Se in Italia 'il taglio' è vietato, la possibilità di superare l'ostacolo è infatti quello di effettuare l'infibulazione all'estero.

Le 10mila donne passate dal San Gallicano provenivano soprattutto dall'Africa dove questa tradizione, slegata da dettami religiosi, è radicata.

In molti paesi europei le mutilazioni vengono eseguite nei centri di chirurgia estetica vaginale
o in quelli dove si fanno piercing e tatuaggi. "Il fenomeno paradossale - dice Morrone - è quello delle giovani ragazze, adolescenti nate in Italia da genitori immigrati o trasferitesi da piccole che 'desiderano' essere infibulate, una volta raggiunta la maggiore età". Le ragazze che hanno fatto questa richiesta, nonostante i numerosi colloqui con i mediatori culturali, in qualche caso, sono riuscite a portare a termine la loro intenzione altrove.

"Abbiamo avuto notizie di una ragazza africana - conclude Morrone - che, una volta maggiorenne, si è fatta infibulare in Germania. E' difficile modificare questo modello culturale. Da una collaborazione con colleghi spagnoli siamo addirittura venuti a sapere di immigrate che, approfittando delle vacanze estive, portavano le loro figlie a farsi infibulare nei Paesi d'origine".
(11 settembre 2010)

Il confine violato del patriarcato dalle donne migranti


il manifesto - 6 agosto 2010
Paola Rudan

FRANCESCA ALICE VIANELLO, MIGRANDO SOLE. LEGAMI TRANSNAZIONALI TRA UCRAINA E ITALIA, FRANCO ANGELI, PP. 192, EURO 21

Le donne che migrano sole rovesciano l'ordine patriarcale. Migrando, sanno di venire meno all'immagine della madre legata al focolare domestico e di sottrarsi alla presenza di un uomo forte. Le donne che migrano sole, lasciando i propri mariti e figli nel paese di provenienza, sanno di essere loro le più forti. «Noi siamo più forti»: è proprio questo che dice A. F., migrante incontrata a Venezia, in una delle molte interviste che conferiscono al lavoro di Francesca Alice Vianello una rara profondità.
Migrando sole è il risultato di una ricerca empirica sulla mobilità transnazionale delle donne ucraine. Un fenomeno sempre più rilevante ma ancora poco conosciuto, che l'autrice indaga intrecciando l'attenzione alle biografie delle donne incontrate con un tentativo efficace di trarre da uno studio di caso indicazioni più generali per comprendere i movimenti transnazionali delle donne e le trasformazioni che producono. Si tratta di una ricerca di frontiera, perché svolta sui pulmini che collegano il nordest e il suo oriente, nei parcheggi dove la domenica le migranti si incontrano, in Ucraina, per considerare gli effetti delle migrazioni delle donne sui figli, le figlie, il tessuto sociale. Una ricerca di frontiera perché condotta da una donna che ha accettato di muoversi per essere in grado di comprendere la lingua e il linguaggio parlati dalle donne incontrate.
Le migranti ucraine (il campione considerato è ampio, relativamente uniforme rispetto alla provenienza sociale - urbana, con alti livelli di istruzione - e differenziato soprattutto in termini generazionali) fanno esperienza non solo di quella che Sayad ha definito «doppia assenza», ma anche e soprattutto di una «doppia presenza». È questo rovesciamento proposto dall'autrice che rende meglio la specificità sessuata di questo studio di caso. Si tratta di una riconfigurazione su scala transnazionale del doppio ruolo - produttivo e riproduttivo - rivestito dalle donne: nel momento in cui migrano sole, le ucraine si trovano a indossare i panni del breadwinner (madri goduval'nytsi) conquistando attraverso il denaro un potere inedito all'interno della famiglia e producendo così tensioni e conflitti anche radicali nei rapporti di genere.
Al contempo, come madri esse sono obbligate a ripensare il proprio modello di maternità, adattandolo alla dimensione transnazionale con strategie che vanno dalle frequenti telefonate ai pacchi dono, dalla retorica del sacrificio materno per i figli al valore simbolico attribuito alle rimesse, una vera e propria «sentimentalizzazione del denaro» cui Francesca Alice Vianello dedica, in prospettiva storica, un'analisi approfondita.
La «doppia presenza» delle donne migranti non è letta attraverso uno sterile binomio Ucraina/tradizione - Italia/modernità. Al contrario, si mostra la presenza transfrontaliera di queste due dimensioni considerando, in particolare, il modo in cui l'uscita delle donne ucraine dalla tradizionale divisione sessuale del lavoro sia riaddomesticata tramite la loro segregazione lavorativa come «badanti». Nonostante tutto, la migrazione rappresenta per queste donne un'esperienza sovversiva, che indica nuovi orizzonti di possibilità modificando, ad esempio, il calendario socioculturale che scandisce la loro biografia, aprendo le porte di una «nuova giovinezza», diventando un'opportunità sempre perseguibile di appropriazione di potere anche laddove gli attraversamenti della frontiera costituiscono altrettanti momenti di proletarizzazione.
Lungo queste linee di indagine l'analisi di Francesca Alice Vianello si sviluppa per giungere a proporre alcuni tipi ideali di migranti ucraine - in transito, permanenti, sospese - che, senza alcuna rigidità, mirano a mettere in luce la dimensione soggettiva, la capacità di elaborare strategie diverse a seconda del mutamento delle prospettive personali, delle relazioni famigliari, delle condizioni lavorative. Non vi è, in questo approccio, alcuna forzata esaltazione della migrazione delle donne come processo emancipatorio in sé dato, ma al contrario la capacità di cogliere tensioni e contraddizioni, possibilità e limiti, restituendo la rilevanza sociale e la costitutiva politicità dell'esperienza personale e del suo racconto. In questo senso, Migrando sole non è solo un contributo estremamente rilevante per comprendere la dimensione ormai compiutamente transnazionale della riproduzione sociale, ma mostra con chiarezza la necessità imprescindibile di uno sguardo sessuato alle migrazioni contemporanee: perché le donne ne sono protagoniste e perché, anche migrando, le donne cambiano il mondo.

lunedì 13 settembre 2010

Dietro le "Badanti". Orfani sociali, spaesamenti e altri effetti collaterali

da: ilpensieroselvaggio

Negli scorsi giorni ho potuto assistere al seminario di presentazione di un libro, scritto da una giovane sociologa di Padova, che studia il tema delle "badanti" a partire da un'intensa attività di ricerca, osservazione e intervista condotta in parte in Veneto in parte in Ucraina.

Voglio brevemente condividere alcuni aspetti, spesso ignorati dal dibattito, che mi hanno colpito.

Le "badanti" ucraine sono soprattutto donne oltre i 40-50 anni; dopo la dissoluzione del socialismo reale hanno spesso perso il loro impiego qualificato andando incontro a grosse difficoltà economiche. Spesso l'intera famiglia è stata travolta dalla crisi: mariti rimasti disoccupati, o che mantengono lavori insufficienti a garantire reddito per salvaguardare la loro immagine sociale; spesso queste difficoltà hanno portato a crisi anche coniugali conclusesi con divorzi e separazioni. Queste donne si sono quindi trovate spesso sole, con il bisogno di diventare principali procacciatrici di reddito. A volte partono gli uomini: destinazione Russia, Repubblica Ceca e Polonia, dove lavorano come manovali (i due terzi degli emigranti ucraini sono uomini). Ma spesso sono le donne a trovarsi costrette a partire.


A casa, queste donne lasciano i figli, spesso in età adolescenziale o pre-adolescenziale. I mariti, dove ancora presenti (e non hanno divorziato), generalmente si curano ben poco di loro; spesso, formalmente, i ragazzi ricadono sotto la responsabilità di nonni e zii ma, specie nelle grandi città, essi vivono lontano dagli appartamenti dove i ragazzi rimangono di fatto a vivere da soli. In Ucraina, questi "orfani sociali" sono considerati una piaga tanto che i giornali locali non fanno che parlarne con toni allarmistici: scarsi risultati scolastici, problemi di alcol e droga. D'altra parte non sono altro che adolescenti lasciati a vivere soli, o sotto il controllo di fratelli o di zie lontane, con una madre lontana che perde autorità e invia laute paghette per compensare e motivare la distanza.

Le madri in Italia lavorano duramente per pagare l'università, l'avviamento professionale, le nozze; mandano frequentemente regali anche banali, per "rappresentare" l'interessamento e la cura. Ma spesso ciò non basta.

La migrazione non è traumatica soltanto per i figli, ma anche per le donne stesse. Finchè vivono in Ucraina esse sono madri, donne istruite, professioniste: anche se hanno perso il lavoro hanno una loro identità rispettabile e costruita, come qualsiasi quarantenne e cinquantenne. Il giorno dopo la partenza, tuttavia, questa eredità si è già sbriciolata: lavori umilianti, e non riconosciuti socialmente, di fronte alle quali queste donne (in patria molto spesso "impiegate di concetto") sono per di più impreparate. Zero autonomia, per donne abituate ad avere la massima libertà di carriera e di movimento improvvisamente murate in appartamenti dove tutto è regalato, dove sono obbligate - se non vogliono perdere il lavoro, o se ambiscono a una mezza giornata libera - anche ad essere ossequiose ed affettuose.

Non basta il fatto che queste donne tamponano sulla loro pelle le carenze del nostro welfare e liberano le giovani donne dal peso di questo penoso lavoro full time di cura.

In ogni caso, la loro condizione non è buona. Non che si aspettassero nulla; ma l'impatto è traumatico. Cominciano così a mitizzare il momento del ritorno a casa: a sognarlo, a immaginarlo, a stabilire quote e limiti massimi di permanenza. Ma questo rientro, sempre presente sull'orizzonte, spesso si rivela molto lontano: le esigenze si moltiplicano, e le donne cominciano a ricostruirsi un embrione di vita sociale, qualche amicizia e qualche legame tra le connazionali, che le convince a restare ancora un pò.

In Ucraina, nel frattempo, le cose non migliorano e le relazioni si lacerano: gli uomini si lasciano andare, i figli vivono male l'allontanamento e rifiutano l'autorità materna. La città di origine diventa, ai loro occhi, piccola, gretta e provinciale. Per non parlare del fatto che quì non sono più madri e professioniste con un'immagine sociale rispettabile e legami sociali, ma semplici migranti che hanno speso anni in attività umilianti.

Quando tornano a casa, spesso per una breve vacanza, trovano che tutto è cambiato; sono loro, le prime ad essere cambiate. Spesso, tuttavia, il ritorno in patria è l'unica soluzione: in Italia non hanno le risorse per poter avere nemmeno una vita autonoma, nemmeno un monolocale tutto loro. Arrotondano vendendo informazioni e posti di lavoro alle connazionali nuove arrivate, ma ciò non basta. A volte ritornano convinte di rimanere in patria, ma poi dopo poco scelgono di emigrare di nuovo.

Oppure, quando sono troppo vecchie per fuggire ancora, vi rimangono, ma con mille sofferenze e disagi.

lunedì 6 settembre 2010

Un orrido impasto di affari, dominio maschile, schiavismo



















di AnnaMaria Rivera
L’ultima visita ufficiale in Italia del colonnello Gheddafi è stata, ancora una volta, il trionfo della società dello spettacolo in versione orientalista: le amazzoni, i cavalli berberi, le tende beduine, l’harem mercenario, il Corano offerto come cadeau in luogo delle farfalline d’argento (o d’oro, non sappiamo) che il Cavaliere è solito donare alle ospiti di Villa Certosa. A ben guardare, è il medesimo spettacolo kitsch che sovente ci viene offerto dall’ex venditore di spazzole (elettriche) che ha fatto fortuna, ma, appunto, decorato con un po’ di paccottiglia orientaleggiante.



















Il Colonnello conosce bene i suoi polli, sa bene che nel regno di Papi può permettersi di gigioneggiare e provocare. Di sicuro intuisce che nel basso impero che lo ha accolto trionfalmente per la quarta volta è ben radicata, e considerata con indulgenza da buona parte dell’opinione pubblica, la protervia maschilista: la stessa che lo ha spinto ad assoldare come comparse del suo show donne che il sistema politico-mediatico berlusconiano ha assuefatto al mercimonio di sé. Sa bene, Gheddafi, che le espressioni d’indignazione o addirittura di disprezzo neocoloniale (il “Rais”, il “Satrapo”, lo hanno definito) che egli suscita nell’establishment politico - variamente motivate, quasi tutte incoerenti e ipocrite - sono il piccolo prezzo da pagare al riconoscimento politico, ad affari lucrosi, all’indennizzo cospicuo per «le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana»: così recita il Trattato di amicizia, cooperazione e partenariato, che ha concluso il percorso iniziato dai protocolli sottoscritti a Tripoli nel 2007 dal ministro Amato col sostegno politico di D’Alema, allora ministro degli esteri.
Il corollario di tanta fervida amicizia – perfino servile, così da indurre il Cavaliere a baciare la mano del Colonnello come fosse il Papa - sono, come è noto, i pattugliamenti congiunti delle coste, i sistemi di controllo delle frontiere terrestri libiche (affidati a imprese italiane), i respingimenti collettivi di migranti e profughi, i cadaveri abbandonati nel deserto, le violenze e le torture inflitte ai migranti rinchiusi nelle prigioni e nei centri di detenzione. E qui il cerchio si chiude. Infatti, a pensarci bene, non è così paradossale quel che sembra tale.
Lo scenario orientalista ostentato in un paese afflitto da islamofobia e arabofobia è una stranezza solo apparente. Nel paese in cui si assaltano moschee, si aggrediscono donne velate e si insulta l’Islam (Santanché, sottosegretario), si propone il Maiale Day in spregio ai musulmani (Calderoli, ministro), si auspica una nuova Lepanto contro gli infedeli (La Padania), in un tale paese ci possono stare pure quattro inviti ufficiali al rappresentante della Repubblica Araba di Libia il quale regala il Corano a fanciulle prezzolate e le invita alla conversione. Purché la sostanza sia salva: il business, il profitto, il dominio maschile, l’acquisto della forza-lavoro al prezzo più basso, ergo la selezione dei migranti e la loro de-umanizzazione, nonché l’uso propagandistico del tema immigrazione. Intatta resta anche la sostanza neocoloniale dell’operazione. Il Trattato di amicizia e i quattro ricevimenti solenni di colui cui si è attribuito il ruolo di cane da guardia delle sacre frontiere marittime italiane non scalfiscono lo spirito di una società, quella italiana, che mai ha fatto i conti collettivamente col proprio passato coloniale, mai ne ha riconosciuto e rinnegato gli orrori; una società che oggi continua a nascondere la polvere della xenofobia e del razzismo quotidiani sotto il tappeto del mito degli italiani, brava gente.















Chi oggi bacia la mano a Gheddafi è lo stesso che nel 2004 presiedeva il governo che patrocinò un’indecente mostra fotografica sull’Epopea degli Ascari Eritrei: ospitata nel Vittoriano, la mostra celebrava il contributo delle truppe “indigene” collaborazioniste alla conquista coloniale del Corno d’Africa. Per dirne un’altra, il film Il leone del deserto, sulla resistenza contro il colonialismo italiano in Libia, mai fino a oggi è entrato nel circuito ufficiale delle sale cinematografiche italiane: messo al bando nel 1982 -secondo Andreotti, allora capo del governo, infangava l’onore dell’esercito-, perseguito per vilipendio delle forze armate, solo dopo la visita italiana di Gheddafi nel 2009 fu proposto per la prima volta da una rete televisiva. Quanto al Leone del deserto, Omar al-Mukhtar, martire della resistenza anticoloniale ed eroe nazionale, temiamo si stia rivoltando nella tomba: in fondo, quelli che ora omaggiano il Colonnello sono, per lo meno sul piano culturale, i degni eredi di coloro che misero a morte al-Mukhtar dopo un processo sommario. E comunque al Leone del deserto non sarebbe piaciuto, immaginiamo, che il riconoscimento della dignità del suo paese costasse la scia di cadaveri che si allunga dal deserto libico fino alle porte della Metropoli.
Annamaria Rivera

in data:01/09/2010
DA: LIBERAZIONE

mercoledì 1 settembre 2010

HANNA E VIOLKA il film/documentario sul lavoro delle "badanti"

"Hanna e Violka" - un film di Rossella Piccinno


GUARDA IL TRAILER


Sinossi:
Hanna Korszla è una delle 1.700.000 badanti presenti in Italia, vive in
Salento da tre anni insieme a Gina e Antonio, un anziano ultraottantenne
malato di Alzheimer, di cui si occupa costantemente. Violka è sua figlia,
diciannovenne polacca senza lavoro. Le vite di Hanna e Violka si incontrano
come in uno specchio scambiando i propri ruoli nella cura di 'Ntoni. E' così
che Hanna può finalmente ritornare in Polonia a riabbracciare il resto della
sua famiglia confrontandosi con un presente e con un passato difficile, mentre
Violka, badante-bambina, fa i conti con un soggiorno che non si rivela essere
proprio "una vacanza".
"Hanna e Violka" è un film sulla trasformazione, quella privata delle
protagoniste a confronto con differenti ruoli, e quella sociale dell'Italia che
invecchia, della famigli! a che cambia, delle straniere venute dall'Est per
diven! tare qua si "di famiglia" . E' un film sulla migrazione di oggi e sulla
straordinaria capacità delle donne di affrontare con forza e ironia le dure
sfide del quotidiano.

Rossella Piccinno

Rossella Piccinno si è laureata in Cinematografia Documentaria e Sperimentale al Dams di Bologna prima di specializzarsi come Tecnico di Produzioni Video. Nel 2005 debutta alla regia con il corto Interno sei seguito dai documentari Mauritania, antiche biblioteche nel deserto (2006), Occhi negli occhi memorie di viaggio (2007), Voci di donne native e migranti (2008), dalla videoelegia To my darling (2008) e dal suo ultimo lavoro Hanna e Violka (2009). Attualmente è artista residente presso lo Studio Nazionale di Arti Contemporanee “Le Fresnoy” in Francia.

Note di regia:
"Avvicinandomi a questo tema con il mio precedente lavoro "Voci di donne
native e migranti"
ho sentito l'esigenza di fare un ulteriore passo in questa
direzione spostando la mia ricerca dal documentario corale al film privato,
dalla realtà detta alla realtà mostrata.
Per questo motivo ho scelto di raccontare la vita di Gina e 'Ntoni, miei
nonni materni, e di Hanna, la loro badante polacca, avventurandomi
personalmente in una riflessione che non è solo antropologica e sociale ma
prima di tutto intima e personale."

Credits
Soggetto: Rossella Piccinno | Sceneggiatura: Rossella Piccinno, Nicolas
Gray, Maggie Armstrong | Regia: Rossella Piccinno | Camera: Rossella Piccinno |
Cast: Antonio Cacciatore, Hanna Korszla, Violka Korszla, Giovanna Margarito |
Montaggio: Rossella Piccinno | Assistenza al montaggio: Tommaso del Signore |
Musica: Marco Mattei, Marco Pierini| Produzione: Rossella Piccinno,
DakhlaVision, Variemani | Co-produzione e distribuzione: Kurumuny, Anima Mundi
edizioni | Con il sostegno di: Apulia Film commission | In collaborazione con:
Naemi, forum di donne native e Migranti | durata: 56' | Italia 2009

*****************************************************************


"Hanna e Violka" ha vinto il Festival Lo Sguardo di Omero Torre dell'Orso (LE)

"Hanna e Violka" ha partecipato al Festival del Cinema Invisibile
(proiezione il 21 Agosto presso l'Accademia di belle Arti di lecce

"Hanna e Violka" ha partecipato al Festival del Cinema del Reale

"Hanna e Violka" ha vinto l'Etnofilm festival di Rovigo

"Hanna e Violka" ha vinto il Riace film festival

"Hanna e Violka" ha vinto il Quadra film festival

"Hanna e Violka" ha vinto il Festival OBIETTIVI SUL LAVORO

"Hanna e Violka" ha vinto il premio "Open Eyes" come Miglior Documentario Internazionale al Med Film Festival di Roma

"Hanna e Violka" è stato selezionato per il "Premio Doc/it Professional Award"

"Hanna e Violka" ha partecipato a DOC IN TOUR
*****************************************************************
Premi:

- novembre 2009: Vincitore del Premio Open Eyes 2009 come Miglior
Documentario Internazionale al Med Film Festival.

Motivazione:
Per la sensibilità poetica con cui si racconta una vicenda privata, che
coinvolge due famiglie, una italiana e una polacca, testimoni dirette delle
trasformazioni dell'Europa di oggi, tra migrazioni e cambiamenti sociali.

- dicembre 2009: Vincitore del festival Obiettivi sul Lavoro come Miglior
Film Documentario:

Motivazione:
La regista, attraverso una scelta oculata ed efficace del soggetto, ha 0D
dimostrato profondità di analisi e metodo. Il linguaggio ancora non
completamente maturo del film è controbilanciato da una notevole sensibilità
nel cogliere momenti di vita intensi e significativi. In particolare la scelta
della protagonista, una donna carica di energia umana e simpatia, permette di
andare in profondità nella narrazione di una vicenda lavorativa estrema in
contesto sociale ricco di contraddizioni come quello dell'Italia rurale.



"Hanna e Violka" è stato pubblicato in DVD da Kurumuny e Anima Mundi Edizioni

per informazioni naemiforumdonne@yahoo.it

"Hanna e Violka"/ Migrazioni[ravvicinate]del terzo tipo
Leggi l'intervista su Palascia, l'informazione migrante

martedì 31 agosto 2010

LAVORO. Donne, migranti e colte, il profilo Censis delle badanti italiane

(ROMA) Il lavoro domestico si rivela estremamente pericoloso: nonostante l’apparente senso di sicurezza trasmesso dall’ambiente casalingo, si cela una molteplicità di rischi, grandi e piccoli, soprattutto considerando il carattere fondamentalmente irregolare dei collaboratori domestici. Sono alcuni dei risultati frutto della ricerca “Dare casa alla sicurezza. Rischi e prevenzione per i lavoratori domestici” , realizzata dal Censis con il contributo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, e presentata ieri 13 luglio a Roma, presso il Cnel, da Giuseppe Roma, Direttore Generale del Censis, e discussa, tra gli altri, dal Presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, il Presidente del Censis Giuseppe De Rita e il Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Pasquale Viespoli. Sono 1,5 milioni le colf e badanti presenti nelle case degli italiani. 2 milioni e 412 mila famiglie italiane ricorrono ai servizi di collaboratori domestici (una su dieci), con un incremento del 42% rispetto al 2001. Figura sempre più centrale del tessuto sociale del nostro Paese, spina dorsale del welfare «fai da te» e sostegno indispensabile per una popolazione che invecchia, ma anche componente sempre più integrata del nucleo familiare, il collaboratore domestico costituisce ormai una presenza stabile in moltissime case italiane. Donna, giovane e immigrata: questo è il profilo del collaboratore domestico che emerge dall’indagine del Censis. In prevalenza, infatti, si tratta di donne e stranieri provenienti dall’Europa dell’Est: Romania, Ucraina, Polonia e Moldavia. Numerosi sono anche i filippini. Più della metà di colf e badanti straniere ha meno di 40 anni ed ha un livello di istruzione mediamente più elevato delle colleghe italiane: il 37,6% possiede un diploma di scuola superiore e il 6,8% una laurea, contro rispettivamente il 23,2% e il 2,5% dei collaboratori domestici italiani. La maggioranza lavora per una sola famiglia, mentre il 44,6% è «pluricommittente», ossia lavora per due, tre, quattro e più famiglie. Il 26,5% alloggia presso la famiglia per cui lavora. In media, l’anzianità di servizio si aggira attorno ai 7 anni. La paga mensile media ammonta a 900 euro netti, con la maggioranza che guadagna meno di 1.000 euro netti al mese e una fetta consistente di collaboratori domestici la cui retribuzione sale oltre i 1.000 euro.

“Dall’indagine – ha detto Giuseppe Roma, direttore del Censis, illustrando lo studio – emerge un dato rilevante dal punto di vista dell’occupazione femminile nel nostro Paese: senza la componente di colf e badanti, infatti, le donne al lavoro nel nostro paese scenderebbe dal 47% al 40%; e ci sarebbero effetti anche sui tassi di occupazione giovanile”. Roma ha continuato sottolineando come il settore dei collaboratori domestici sia in gran parte “sommerso”: “C’è molto lavoro irregolare: il 40% dei lavoratori che operano nel settore è irregolare, e questa percentuale sale in alcune zone del Paese come il Sud e il Nord-Est, mentre scende al Nord”. L’irregolarità contrattuale rappresenta, infatti, una condizione diffusa per più del 60% del campione: tra di essi, gli italiani rappresentano più della metà, mentre gli stranieri accettano lavori in nero solo nel 30% dei casi, in quanto interessati ad avere un contratto per ottenere il permesso di soggiorno. La sperequazione geografica, anche nel campo dell’irregolarità, rappresenta un elemento molto importante: al Sud il tasso di irregolari raggiunge il picco del 72,7%. In termini di evasione contributiva, quasi 6 ore di lavoro su 10 risultano prive di qualsiasi forma di copertura previdenziale, al di fuori del quadro di regole, tutele e garanzie previste dalla legge. Oltre ad essere prevalentemente sommerso, il lavoro domestico si contraddistingue per un elevato tasso di incidenti: se il quadro dipinto dalle statistiche ufficiali registra nel 2008 poco più di 3.500 infortuni riguardanti il personale, di cui 2 mortali, l’indagine del Censis rivela una situazione molto più preoccupante. Il 44% dei lavoratori intervistati dichiara di aver avuto almeno un incidente sul lavoro nell’ultimo anno, con tassi molto elevati soprattutto tra gli stranieri. Gli incidenti, che sono per lo più bruciature, scivolate, cadute dalle scale, ferite provocate dall’utilizzo di coltelli, strappi, contusioni e intossicazioni, provocano spesso conseguenze fisiche per il lavoratore, più o meno gravi, ma spesso non vengono alla luce. Si riscontra un basso livello di consapevolezza riguardante i rischi del mestiere e le sue potenziali conseguenze sulla salute, come confermato dal fatto che le principali cause degli incidenti sono la disattenzione di colf e badanti, l’imperizia o i comportamenti azzardati, la mancata o cattiva manutenzione di oggetti e impianti. Se la casualità resta un fattore importante nella casistica, i fattori endogeni rimangono quindi la causa più comune degli incidenti.

Per quanto riguarda la prevenzione dagli infortuni, dall’indagine emerge non solo l’assenza di una strategia globale di prevenzione, ma anche una comunicazione piuttosto lacunosa tra collaboratori e famiglie e la scarsa consapevolezza da parte di entrambi dei fattori presenti sul lavoro. Una buona percentuale di collaboratori domestici non si preoccupa della propria sicurezza, preferendo soluzioni “fai da te”, dettate nella metà dei casi dall’esperienza.

(Delt@ Anno VIII, n. 151 del 14 luglio 2010) Elisa Strozzi

Il 4 settembre 2010 manifestazione a Roma davanti all'Ambasciata francese per dire no alla persecuzione dei Rom

Roma, 28 agosto 2010.

Torna a riunirsi il Coordinamento anti-discriminazione con la mobilitazione di tutti gli antirazzisti accanto ai rappresentanti della comunità Rom e Sinti per la manifestazione del 4 settembre 2010 alle ore 14,30 a Roma, in Piazza Farnese davanti all’Ambasciata francese, per dire no a razzismo e discriminazione; no agli sgomberi senza alternative di alloggio; no alla trasformazione di Rom e Sinti in capri espiatori per fini politici; no alle nuove forme di deportazione; no all'uso improprio o illecito degli ingenti fondi Ue stanziati per l'integrazione di Rom e Sinti. Il Ministro Maroni con un'intervista al Corriere della Sera ha ufficialmente aperto la campagna elettorale della Lega Nord, che verterà ancora una volta su un concetto strumentale di sicurezza, al cui centro non vi sarà la lotta alle mafie e alla corruzione, ma la solita campagna contro Rom e Sinti. Il Corriere della Sera ha intervistato il Ministro senza concedere a Rom e Sinti il legittimo diritto di replica. I media usano l'informazione per fini di propaganda e a senso unico. Le deportazioni, le intimidazioni, la caccia al Rom in Francia suscita il nostro sdegno, come uomini prima ancora che come cittadini italiani, europei e del mondo. Dopo il Vaticano e la Commissione europea, anche le Nazioni Unite hanno stigmatizzato le politiche contro i Rom in Francia, eppure i piani di pulizia etnica non sembrano fermarsi. I Rom e Sinti hanno pagato un prezzo altissimo durante la Seconda guerra Mondiale, con oltre 500 mila vittime della persecuzione razziale messa in atto dai nazifascisti, senza che questa immane tragedia si sia fissata come un monito nella memoria collettiva. Al contrario, pregiudizi e informazioni distorte continuano a gettare fango sul solo popolo che non ha mai fatto guerra a nessuno. Sarkozy e Maroni si accaniscono contro bambini, donne e vecchi che non possono difendersi.

I Rom e Sinti ricevono spazio solo quali protagonisti negativi della cronaca, mentre l'eroismo di famiglie emarginate che ogni giorno sopravvivono fra mille difficoltà e gli eventi culturali che vedono i Rom offrire un contributo preziosa alla civiltà europea e mondiale sono oscurati. La società civile deve essere informata e deve reagire. Centinaia di persone Rom e non, difensori dei diritti umani, intellettuali, professionisti, studenti hanno già aderito alla manifestazione e le adesioni continuano a raggiungere gli organizzatori. Lo stesso 4 settembre a Parigi, su iniziativa delle organizzazioni per i diritti di Rom e Sinti, si terrà una grande manifestazione di piazza contro le politiche antizigane condotte dal presidente Sarkozy e dal governo francese.

venerdì 9 luglio 2010

sabato 12 giugno 2010

La Casa delle Donne di Lecce rischia di sparire





L.F.D. Libera Federazione Donne
Casa delle Donne - ex Liceo Musicale
Viale dell'Universita' – Lecce


Comunicato stampa
Questa mattina le donne della L.F.D. hanno simbolicamente occupato l'atrio di Palazzo Adorno e lì tenuto una Conferenza stampa per portare al centro dell'attenzione pubblica tutta l'attività fatta in questi pochi mesi in cui hanno gestito il “Tito Schipa”, attività che ha coinvolto larghe fasce della popolazione leccese, mentre, a 15 giorni dall'inizio dei lavori di ristrutturazione dell'immobile, l'amministrazione provinciale non ha fornito nessuna risposta circa il futuro del progetto della “Casa delle Donne”.

Le associazioni che hanno fondato la Casa delle Donne presso l’ex liceo musicale Tito Schipa, e non altri, si sono adoperate per far rivivere quel luogo e far attribuire dall’istituzione regionale i fondi per la ristrutturazione che, altrimenti, non sarebbero mai stati stanziati.

La ri-destinazione di luoghi storici a contenitori culturali ad ampio respiro, aperti alle esigenze del territorio, rispettosi della storia così come dei bisogni politico-culturali degli uomini e delle donne in carne ed ossa che in quel territorio vivono, non è una ipotesi "incompatibile" con altre scelte e destinazioni d'uso. Se anche quelle che furono chiese, luoghi di culto, possono essere trasformate in musei, contenitori culturali allargati, perché il liceo musicale che fu costruito per volontà di Tito Schipa non potrà essere sede di una fondazione musicale, condivisa in parte con la Casa delle Donne, nel rispetto della storia, della memoria, ma anche della progettualità politica delle donne che in quel luogo stanno costruendo la loro storia ?


Per noi, il primo e imprescindibile obiettivo è quello di tornare nel “Tito Schipa” una volta terminati i lavori di ristrutturazione, in quella parte che ci è stata già assegnata in comodato d'uso.
Chiediamo, inoltre, alle Istituzioni, a cominciare dalla Provincia di Lecce, che ci venga data l'opportunità di portare avanti il nostro progetto anche in questa fase transitoria durante la quale il “Tito Schipa” sarà inutilizzabile, e che quindi si individui una soluzione provvisoria senza la quale le forze, l'entusiasmo, le aspettative e la partecipazione rischiano di andare definitivamente disperse.

Lecce, 12.06.2010

mercoledì 9 giugno 2010


12 giugno
arte, musica e parole per l’acqua bene comune

si esibiranno
nextrio (favatano, legari,pennetta)
daniele durante
enza pagliara
emanuele coluccia
orodè deoro
vuaolè
claudio prima e stefania mariano
gianluca milanese e francesco vaglio
salvatore gervasi e mariella salierno

13 giugno
acqua obiettivo comune
libera mostra fotografica per liberi fotografi
con animazione musicale

dalle ore 20 in poi
via matteotti angolo via templari


nelle 2 serate vi saranno i banchetti
per la raccolta firme contro la privatizzazione dell’acqua

HANNO DATO LA LORO ADESIONE ALLA CAMPAGNA REFERENDARIA ACQUA BENE COMUNE:

NEXTRIO (FAVATANO, LEGARI, PENNETTA) - DANIELE DURANTE - ENZA PAGLIARA - EMANUELE COLUCCIA - ORODÈ DEORO - VUAOLÈ - CLAUDIO PRIMA E STEFANIA MARIANO - GIANLUCA MILANESE - FRANCESCO VAGLIO- SALVATORE GERVASI E MARIELLA SALIERNO - ANDREA CHIMENTI - ANDREA SABATINO - ARSURA - PAOLA ARNESANO - PIERO RAPANÀ - PIERLUIGI MELE - ROBERTO SIMMINI - LIKULURI - BIG MATATA - GRETALUNA'S BAND
_______________________________________________

GRAZIE! A TUTTI COLORO CHE HANNO CONTRIBUITO METTENDO IN COMUNE I LORO BENI, LA LORO ARTE E LA LORO MUSICA PER L'ACQUA PUBBLICA!!!


www.acquabenecomune.org

domenica 23 maggio 2010

Permesso di soggiorno a punti: approvata l'ultima follia xenofoba




Milano, 21 maggio 2010. E' stato approvato al Consiglio dei Ministri il “permesso di soggiorno a punti”.


Con i “punti” da assegnare e togliere agli immigrati, come facevano alcuni negrieri con gli schiavi delle piantagioni di cotone, l'Italia tocca il fondo della xenofobia. La scusa per emanare tale aborto è stata: “E' uno strumento che esiste già in Canada”. Non è vero, perché il soggiorno a punti canadese, elaborato dal team del ministro per l'Immigrazione Jason Kenney dopo aver ascoltato le opinioni di tutte le ong e degli specialisti nei fenomeni dell'immigrazione e della convivenza fra etnie ospitanti e migranti, è un sistema che aiuta l'immigrato a inserirsi positivamente presso la comunità ospitante, apprendendone le leggi, le usanze, la Storia, la cultura e le caratteristiche.


Il welfare canadese funziona come un orologio e chi entra nello Stato si trova davanti un percorso che lo può condurre a una piena integrazione e anche a raggiungere posizioni di grande prestigio e responsabilità. Chi invece fa fatica a comprendere il nuovo tessuto sociale, viene seguito e sostenuto; in particolare i bambini e l'uinità dela famiglia sono in cima al novero delle attenzioni da parte delle Istituzioni. In Italia avviene il contrario e manca completamente un sistema di welfare, sostituito dalla demagogia intollerante, come se i programmi di integrazione togliessero qualcosa alla cittadinanza. Il percorso a punti diventa quindi un micidiale calvario e a ogni “stazione” il migrante si trova a temere di perdere ogni diritto.


Qui da noi tutto è ostile, per lo straniero. Mentre una Direttiva europea fissa a dieci anni il periodo massimo di permanenza in uno Stato per ottenere la cittadinanza, per esempio, da noi i dieci anni devono essere di residenza e le autorità controllano che tale periodo sia trascorso esaminando i certificati storici di residenza, senza tenere conto che per uno straniero, specie se povero, è quasi impossibile avere sempre casa con regolare contratto, lavoro con regolare assunzione, tessera sanitaria ecc. Ma anche nel caso miracoloso che i dieci anni siano dimostrabili, dal momento della domanda, che si può presentare solo allo scadere del decimo anno di residenza, all'accettazione della stessa passano altri quattro anni.


Se si considera che durante il primo anno di permanenza nessuno ottiene la residenza, occorrono minimo 15 anni, in Italia e da nessun altra parte nel mondo, per avere la cittadinanza. Per non parlare del permesso di soggiorno, il cui rinnovo è sempre una tappa tragica per l'immigrato. Basta perdere il lavoro o non riuscire a trovare casa con affitto regolare (per gli stranieri l'abitabilità è quasi una chimera e i requisiti richiesti scoraggiano i proprietari dall'affittare loro gli appartamenti) per diventare in un amen “clandestini” e quindi, in basa alla Legge 194, criminali, soggetti a retate, arresto, detenzione fino a sei mesi nei Cie (carceri-lager per immigrati) ed espulsione. Ma torniamo ai “punti”, che in Italia sono veri e propri “punti-vita”, come nei giochi di ruolo e nei videogame.


Qualcuno spieghi in base a quale criterio il migrante può essere punito in misura gravissima (l'espulsione lo condurrà in un Paese da cui è già fuggito, quasi sempre a causa di un'emergenza umanitaria; contemporaneamente, i suoi familiari resteranno soli in Italia, esposti a qualsiasi pericolo) in base a un regolamento che non dovrebbe avere valore giuridico? Per punire le colpe ci sono già le leggi dello Stato e i tribunali: togliere ulteriori “punti-vita” diventa una condanna la cui natura sfugge al buon senso, una condanna senza diritto alla difesa e senza giudice. Inoltre, mettere nelle mani di insegnanti di lingue (magari leghisti), vigili urbani, forza pubblica e chissà chi altri il destino di uomini, donne e bambini è una grave violazione della Costituzione e delle Carte sui diritti fondamentali.



Ma vi è una cosa che va ripetuta e sottolineata mille volte: chi viene punito fino a ritrovarsi a zero punti, viene espulso e il provvedimento colpisce anche i figli (che restano senza sostegno o sono costretti a tornare in Paesi dove esiste crisi), la moglie (o il marito), le persone per cui lo straniero lavora (si pensi a una badante). Quando mogli e figli restano in Italia da soli, rimangono loro la prostituzione o la schiavitù per sopravvivere. A questo proposito, i casi di donne costrette a “prestazioni speciali” in cambio di assunzione (o di una casa con regolare contratto di affitto) sono ormai la regola, visto che il permesso di soggiorno è diventato vitale. La legislazione e i provvedimenti riguardanti l'immigrazione in Italia sono folli.


Il soggiorno a punti è solo l'ultima sadica e scriteriata invenzione di un potere xenofobo, dettato nelle sue linee da puro odio razziale e da cancellare, prima che qualcuno, irresponsabilmente, lo prenda a modello fuori dall'Italia. La legge 194 sull'immigrazione sta producendo a propria volta effetti devastanti; persone lungosoggiornanti -protette da una Direttiva europea contro la discriminazione - vengono imprigionate nei terribili Cie ed espulse se perdono il permesso di soggiorno, magari dopo vent'anni che vivono qui (è successo). Certo, un giorno l'Italia si vergognerà di ciò che ora accade, ma sarebbe tempo di vergognarsi e fare qualcosa adesso, avvalendosi, per creare leggi giuste e rispettose della dignità e della vita di tutti, del patrimonio di esperienza di cui dispongono gli specialisti nel campo dei Diritti Umani, gli studiosi dell'immigrazione, del razzismo e dei fenomeni persecutori, nonché gli operatori umanitari.




Friday, May 21, 2010, di Alfred Breitman

Permesso di soggiorno a punti: approvata l'ultima follia xenofoba
da everyonegroup

domenica 9 maggio 2010

Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo


Anna Maria Rivera

Regole e roghi.
Metamorfosi del razzismo


Edizioni Dedalo 2009


Con un saggio introduttivo dal titolo significativo “ Il razzismo nell’epoca della sua riproducibilità mediatica” e una raccolta di articoli pubblicai in quotidiani e riviste dal 1999 al 2009, Anna Maria Rivera descrive la metamorfosi del razzismo in Italia, cresciuto grazie a un razzismo istituzionale, rafforzato e veicolato dal sistema mediatico, che ha alimentato e alimenta la xenofobia popolare e se ne serve per legittimarsi e ottenere consenso.
(Isabella Peretti)

SINTESI PER PUNTI


1. Nel passaggio dal governo di centro-sinistra a quello del centro-destra (2008) si è realizzata la saldatura temibile e terribile tra razzismo istituzionale e razzismo popolare – il secondo incrementato anziché frenato dal primo – con il concorso dei mass media e della Lega, quale uno dei principali imprenditori politici del razzismo.

1a. Quei mass media che fin dagli anni 80 e 90 costruivano, attraverso un’ informazione spesso stereotipata e rozza, il crescere allarmistico dell’emergenza immigrazione, usando espressioni quali: marea montante, invasione, ecc; con la prima guerra del Golfo gli stessi iniziavano la catena di equazioni immigrato-musulmano-arabo-terrorista ; proseguivano poi con la campagna contro gli albanesi; generalizzavano la colpa del padre omicida di Hina Salem all’intera collettività musulmana. L’uso dei fatti di cronaca, selezionati, gerarchizzati, drammatizzati, reiterati, fino a definire un genere, per costruire artificiosamente delle emergenze che minacciano la nostra sicurezza, è stato reso possibile dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, in particolare in Italia dove si configura come un nuovo sistema istituzionale informale.

1.b. Quella Lega Nord che esercita una sorta di pedagogia razzista di massa e al contempo influenza e informa le politiche istituzionali e normative. Recupera l’ armamentario nazista (il mito del sangue e del suolo, il mito celtico e l’integralismo cattolico). Il leghismo è quindi da rubricare sotto la categoria di estrema destra. La Lega favorisce il fatto che l’estendersi della xenofobia sia il corollario ineluttabile della crisi economica. Padroni a casa nostra, uno slogan che esprime non solo ignoranza, pregiudizio, paura propri della comunità razzista, ma frustrazione e rancori di fronte alle trasformazioni sociali, una socializzazione del rancore indirizzato verso l’intruso Questo spiega più della paura il carattere barbarico delle norme che rendono invivibile la vita degli immigrati, gli episodi di indifferenza verso la loro morte e le loro sofferenze. Un altro falso slogan: Aiutiamoli a casa loro. In generale il disagio o il senso di colpa di fronte a marginalità verso le quali non c’è più alcuna solidarietà, si traducono nel desiderio di allontanarle o eliminarle, che siano immigrati o clochard o rom. Ma non solo.

1.c. Razzismo rispettabile o razzismo democratico. Al saldarsi di razzismo istituzionale e razzismo popolare hanno concorso e concorrono gli apprendisti stregoni del centrosinistra, che trastullandosi con il paradigma sicuritario hanno spalancato le porte dell’inferno del razzismo istituzional-popolare, hanno evocato mostri che oggi non solo minacciano di rendere l’Italia un paese strutturalmente razzista, ma anche di divorarne la democrazia. Hanno contribuito a tutto ciò i Patti per la sicurezza, le delibere locali anti-rom (abbattimento dei campi, deportazioni, campi lager,ecc), i decreti antilavavetri, ecc. , il disegno di legge del Governo Prodi Limitazioni al diritto di ingresso e soggiorno per motivi di ordine pubblico. Secondo il Ministro degli Interni Giuliano Amato le misure securitarie sarebbero servite a bloccare l’intolleranza tra la gente comune, secondo il principio dell’omeopatia, somministrare qualche buona dose di razzismo istituzionale servirebbe a prevenire il razzismo ordinario.

2. Entrambi gli schieramenti politici, pur con molte differenze, affrontano l’immigrazione come oggetto di un diritto speciale, di norme eccezionali rispetto al diritto costituzionale e al diritto internazionale sui diritti umani. 15 milioni di residenti-non-cittadini nell’Unione Europea sono privati del diritto alla libera circolazione, dei diritti politici (voto), spesso dei diritti sociali e del diritto ad un eguale trattamento in fatto di giustizia ( la grave discriminazione della doppia pena, al carcere e all’espulsione. Il trattenimento nei Cpt, cioè la detenzione e la privazione della libertà solo per infrazioni amministrative ecc.).
Inoltre in Italia il 60% degli stranieri detenuti è in attesa di giudizio, perché non hanno un’alternativa al carcere in attesa del processo. Lo straniero viene associato all’idea del disordine e della devianza: l’80% della spesa per l’immigrazione è destinato alla sua repressione (contrasto ingressi illegali, CIE,espulsioni, respingimenti) e solo il 20% alle politiche di integrazione. L’introduzione del reato di clandestinità e la clandestinità come aggravante di altri reati (aumento delle pene fino a un terzo), si propone di sanzionare non solo il reato ma anche lo status di chi l’ha commesso. Il marchio di clandestino per deumanizzare, la clandestinità come categoria ontologica
Anche il centro sinistra ha distinto e distingue tra immigrati irregolari e regolari, mentre sa benissimo che sono le norme a produrre l’illegalità. Il 95% degli immigrati ora regolari erano immigrati irregolari, che si sono trattenuti oltre lo scadere del permesso turistico, hanno usufruito delle sanatorie, dei decreti flussi, ecc .
E’ in atto una sorta di perversione della democrazia, una democrazia che si fa ostacolo all’uguaglianza per ottenere il consenso, per compiacere l’elettorato

3. Razza: tutte le razze sono inventate, per indicare gruppi che sarebbero differenti per essenza e definitivamente; le differenze culturali vengono tradotte in differenze naturali. La metafora naturalistica e la gerarchia tra razze che ne consegue possono essere adottate per chiunque: donne, omosessuali,ecc. E’ il razzismo che ha creato le razze (cfr.il caso degli ebrei). Il razzismo è una relazione di dominio basata sulla naturalizzazione dei dominati, il sessismo è la forma di naturalizzazione del sociale più condivisa e meno messa in discussione: la naturalizzazione delle donne in quanto subalterne e la neutralizzazione della visione androcentrica. Il femminismo critica il nesso tra razzismo e sessismo e quindi critica il falso universalismo del modello liberale, fondato su una monocultura bianca, maschile,occidentale. E si oppone a certe tendenze, presenti nello stesso femminismo, che individuano quale soluzione l’estensione del modello liberale a tutte, native e migranti. Sessismo e razzismo: ma la libertà femminile si può imporre? Il principio della laicità può essere affermato al costo di quello della libertà individuale?
Il razzismo –sessismo attribuisce alla componente maschile dell’immigrazione il monopolio della violenza sessista e alla componente femminile la prerogativa della sottomissione. Il razzismo si nutre ancora degli stereotipi dell’orientalismo (Edward Said); si assolve la società dei bianchi dal sessismo facendone un fenomeno esotico.
L’ emergenza stupri realizzati da stranieri: si ricollega a un tema classico del razzismo, il topos dell’Altro come minaccia alle nostre donne, la sua sessualità incontenibile e bestiale; la reazione popolare è furibonda quando si presume che il violentatore sia straniero. Tipico il fatto che a gridare allo stupratore alieno sia la Lega Nord, quella del celodurismo e della proprietà dei maschi bianchi delle proprie donne (da qui anche l’idea delle ronde).
L’incapacità di accettare la nostra ambiguità e ambivalenza: il razzismo scioglie l’ambivalenza proiettandone il lato oscuro o inaccettato in un capro espiatorio che ha il volto dello straniero o dell’estraneo. Il nostro cattivo passato che torna e rigurgita, un passato fascista e coloniale non rielaborato e trasceso, il nostro passato di emigranti che rifiutiamo, pronti a umiliare gli altri, siano meridionali o stranieri; la debolezza del nostro senso civico, la rapidità dell’aumento dell’immigrazione hanno contribuito alla crescita del razzismo in Italia.
La perdita del senso di comunità locale viene spesso rimpiazzata e compensata dalla costruzione di una comunità razzista

Modelli di integrazione divergenti hanno prodotto comunque processi di esclusione, sia il modello universalista francese sia la multiculturalità anglosassone, che ha prodotto ghettizzazione sociale e territoriale . Il multiculturalismo normativo è diverso da un modello descrittivo, cioè il pluralismo culturale. La retorica universalista Occidentale (democrazia contro teocrazia) si presenta oggi come una nuova maschera del dominio. Il femminismo sottopone a critica tutte le tradizioni, compresa quella occidentale. No al femminismo. Etnocentrico. L’ Utopia di un universale policentrico e transculturale.


donne contro il razzismo

domenica 2 maggio 2010

Corso di lingua Swahili



organizzato da NAeMI - forum di donne Native e Migranti
Il corso è a livello di base ed è tenuto da Vivianne, insegnante
di madrelingua swahili.

Lo swahili o kiswahili (pronuncia suaili, chisuaili) è una lingua bantu e fa parte
della famiglia delle lingue niger-kordofaniane, ampiamente diffuse nell’Africa
Orientale. Lo swahili è parlato in gran parte dell’Africa subsahariana.
In Tanzania, Kenia, Uganda,Rwanda, Burundi,Congo (RDC), parte dell Somalia,
parte del Mozambico,parte del Malawi, parte dello Zambia, parte del Madagascar
e in alcune isole dell’Oceano Indiano (Zanzibar).
E’ la prima lingia per 5 milioni di persone e la seconda per più di 50 milioni. il
nome Swahili deriva dall’arabo e significa “lingua delle coste”.

il corso comprende due lezioni a
settimana per un totale di 12 lezioni
Numero minimo di partecipanti: 10

Sede: Casa delle Donne
Viale dell’Università
exLiceo Musicale
“Tito Schipa” Lecce

IL CORSO INIZIA L’11 MAGGIO 2010
ORARIO: dalle 19 alle 20,30

martedì 9 marzo 2010

Storie di donne di fronte all’Islam



Storie di donne di fronte all’Islam
Un’intervista con Renata Pepicelli
Quello che segue – è bene sottolinearlo – non è un articolo di apologia del fenomeno che viene raccontato attraverso un’approfondita intervista a un’interessante studiosa. Si è scelto di approcciare il femminismo islamico come uno dei segni della complessità di questo tempo, in cui le religioni stanno invadendo la sfera pubblica di gran parte degli scenari politici mondiali, e i tentativi di opporsi all’islamizzazione come forma di teocrazia sembrano, specie nell’ultimo decennio, sortire effetti del tutto opposti agli obiettivi perseguiti.
È un dato di fatto che gran parte delle manifestazioni di codificata e formalizzata oppressione femminile nel mondo abbiano cause in qualche modo connesse alla religione. Un altro dato di fatto è che una parte non minoritaria del mondo islamico (e quindi della maggioranza dei credenti della terra) affermi l’esistenza di una profonda disuguaglianza tra uomo e donna, e di una necessaria subordinazione di quest’ultima.
Nonostante queste premesse, chi ha avuto modo di frequentare il mondo della diaspora femminile delle donne migranti in Europa si è reso probabilmente conto di come, anche per molte di loro, nonostante entrino in contatto con modelli completamente differenti (o forse anche a causa di ciò), non sia comunque facile distaccarsi da ciò che ritengono la propria cultura e tradizione. In alcuni casi, questa forma di attaccamento a rituali e segni di appartenenza alla propria comunità religiosa (e quindi, spesso, anche politica e sociale), persiste anche laddove questi si concretizzino in pratiche violente come le mutilazioni genitali femminili (che molti interpreti non ritengono però in accordo con la legge islamica).
A un livello molto diverso, basti pensare a quanto la questione del velo abbia messo in disaccordo tra loro intellettuali e femministe di ogni parte del mondo, politici riformatori e religiosi di ogni dove (salvo, ovviamente, le forze conservatrici dell’Islam). Sorprendente è stato scoprire come molte donne musulmane, in Francia, non si siano affatto sentite “liberate” dal peso del velo, quanto piuttosto private di un riferimento identitario che non avevano liberamente scelto di abbandonare, su ordine di un sistema di valori considerato tutt’altro che neutrale.
Riflettere su forme di reazione come il femminismo islamico può servire quindi a comprendere da una prospettiva poco nota quanto scivoloso sia oggi il terreno delle lotte di genere nei luoghi in cui la presenza della religione appare totalizzante nella sfera pubblica, ma può anche essere utile per indagare un ulteriore aspetto delle conseguenze di un discorso occidentale sull’universalità dei diritti umani che si è fatto guerra e oppressione, invece che punto di riferimento possibile per un radicale cambiamento.
Il femminismo islamico non è l’unica risposta, né con tutta probabilità la migliore, alla violenza patriarcale che milioni di donne subiscono in modo codificato e formalizzato in alcune parti del mondo (anche quelle migranti, spesso, nei luoghi della diaspora). Si tratta, anzi, di un fenomeno molto contraddittorio, che può rischiare di legittimare una strutturale sottomissione della sfera pubblica alla religione (con tutti i danni che storicamente ciò comporta, qualunque sia la religione in questione), anche se si tratta di un’interpretazione egualitaria in cui le donne appaiono libere, ad esempio, di coprirsi o meno il capo. Il femminismo islamico, però, è un fenomeno che ci parla della realtà contemporanea e che può aprire dei dubbi e fornire spunti di riflessione, per quanto certamente non semplici da decifrare e valutare.
Solo in questa prospettiva è stata realizzata e pubblicata l’intervista che segue.

(Renata Pepicelli è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna e già autrice di un libro importante, uscito qualche anno fa, “2010. Un nuovo ordine mediterraneo?” Che è servito molto a chiarire che tipo di relazioni esistano nel mondo mediterraneo tra le due sponde Nord Sud di quest’area così composita. Renata ha appena pubblicato un nuovo volume, edito nel gennaio di quest’anno da Carocci, il cui titolo è “Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme”).

Basi teoriche del femminismo islamico

D. Potremmo iniziare innanzi tutto con lo spiegare, essendo una materia questa ancora poco conosciuta e diffusa al di là delle élites accademiche che se ne occupano qui in Europa, che cosa è esattamente il femminismo islamico. Tu dedichi un intero paragrafo del tuo libro a parlare della problematicità della stessa definizione di femminismo islamico. In che senso questa definizione è problematica?

R. Nel mondo musulmano in questo momento esistono tre correnti del movimento delle donne: una che possiamo definire di femminismo laico, un’altra di femminismo religioso, chiamata femminismo islamico, e un’altra che è una corrente di critica di genere che si va affermando in varie organizzazioni islamiste. Il femminismo islamico cui dedico la gran parte del mio libro – solo l’ultimo capitolo è dedicato al discorso di genere all’interno di movimenti islamisti – è un movimento che si basa su una rilettura dei testi sacri da una prospettiva di genere. Vale a dire che teologhe di diverse nazionalità, sia dei paesi a maggioranza musulmana che dei paesi occidentali della diaspora islamica, sostengono che i testi sacri dell’islam, quindi penso al corano innanzi tutto, ma anche alla Sunna e agli Hadith, affermino assolutamente l’eguaglianza di genere, ma che siano state delle erronee interpretazioni, perpetuate da élites maschili patriarcali, ad avere fatto emergere invece un’idea di islam misogina che, dal punto di vista di queste teologhe, tradisce completamente quello che era il messaggio divino che era invece un messaggio di giustizia di genere e di uguaglianza

Le femministe islamiche e il discorso occidentale sui diritti

D. Quale rapporto possiamo dire che esiste oggi tra l’attivismo di genere definito come femminismo e proprio delle donne che operano fuori dai riferimenti religiosi, e questo tipo di femminismo che invece a quei riferimenti religiosi si rifà?

R. Come dicevi, qui c’è un problema di definizioni. Molto spesso le donne che vengono definite femministe islamiche non si riconoscono in tale terminologia, perché pur battendosi contro codici di legge patriarcali, contro istituti e costumi che affermano la disuguaglianza di genere, queste donne considerano che la parola femminista non sia la migliore per parlare di quella che è la loro battaglia, in quanto considerano il femminismo un termine che connota i movimenti delle donne occidentali e quindi anche compromesso con la storia occidentale e in particolar modo con il colonialismo e le nuove forme di neoimperialismo. Faccio degli esempi: tutto il discorso della difesa dei diritti umani, e in particolare dei diritti delle donne, che ha giustificato interventi militari in Iraq e prima ancora in Afghanistan, è visto da molte donne musulmane e femministe come un atteggiamento legato a una certa parte del discorso dei diritti umani e anche del discorso femminista che continua ad essere colonizzatore e imperialista. Per le femministe islamiche molto spesso l’approccio del femminismo occidentale verso le donne musulmane appare un approccio di tipo autoritario, salvifico, sempre con l’idea che le donne musulmane vadano salvate, in continuità con quello che si diceva in età coloniale, con la “missione civilizzatrice” che doveva avere l’Occidente, e anche le donne occidentali rispetto a quelle musulmane. Le donne musulmane, invece, rivendicano appieno l’idea che non hanno bisogno di essere salvate da altre, ma che stanno cercando all’interno della propria cultura, storia, tradizione e religione, il modo migliore per affermare i propri diritti, diritti che loro dicono comunque essere già sanciti nella loro religione, anche se degli uomini hanno sottratto la possibilità di sentire affermata l’eguaglianza di genere che è già scritta nel Corano.

Femministe islamiche e Islamiste

D. Dall’altra parte – visto che, come tu scrivi, mentre alcune donne non si riconoscono nel termine “femminismo”, altre non si riconoscono nel termine “islamico” accoppiato a “femminismo” - quale rapporto esiste tra il femminismo islamico e il resto del mondo islamico? Tu chiudi il tuo libro con un capitolo sulle Islamiste e fai una distinzione tra queste donne e le femministe islamiche. Quale relazione c’è tra queste due categorie di donne, e poi all’interno del mondo islamico in generale come è percepito questo tipo di femminismo?

R. C’è una parte della letteratura accademica, e anche alcuni mass media che definiscono femmismo islamico anche quello delle donne islamiste attive in movimenti come al- ’Adl wa’l-Ihsan in Marocco, o Hamas in Palestina. Le definiscono femministe islamiche perché alcune di queste donne sono molto attive non solo in questi gruppi politici, ma anche sul piano delle questioni di genere.
Io non penso che sia giusto parlare di femministe islamiche nel loro caso, per quanto io stessa riconosca che indubbiamente, all’interno della galassia islamista, vi sia un’affermazione sempre crescente delle donne non solo come base – sempre più donne seguono questi movimenti, li appoggiano in quanto i loro uomini, padri, mariti, figli, militano in questi gruppi - ma perché loro stesse sembrano convinte delle ragioni di questi movimenti. Queste donne quindi non sono solo base elettorale o popolare durante le manifestazioni, ma ormai coprono sempre più ruoli di leadership all’interno di questi partiti o gruppi politici. È il caso, ad esempio, di Nadia Yassine, marocchina, portavoce di questo movimento “giustizia e spiritualità” fondato dal padre e di cui lei è oggi una delle più importanti esponenti. Nadia Yassine, all’interno di questo movimento è molto nota sia in Marocco che nel resto del mondo, per una serie di battaglie che ha portato avanti contro la monarchia marocchina, ma anche per quelle che sono alcune sue posizioni di genere, quando afferma per esempio che le donne oltre al ruolo riproduttivo e sociale di madri debbano avere anche un ruolo politico attivo nella società, che loro debbano accanto agli uomini partecipare a quella che è la battaglia per la realizzazione di Stati islamici.
Ci sono quindi differenze per certi versi sostanziali tra le femministe islamiche e le islamiste perché sicuramente per le donne islamiste attente al genere importante è fare emergere letture del Corano che mettano in evidenza il ruolo della donna nell’Islam come ruolo sociale e politico, ma la loro battaglia principale non è contro il patriarcato, bensì è quella per la fondazione di Stati islamisti. La loro è una visione fortemente conservatrice della società.
Detto questo, però, queste donne sono in primo piano nella società e non sono più relegate a spazi privati, ma sono sempre più nello spazio pubblico, sia politico che religioso. Affollano sempre più le moschee, studiano teologia islamica, si prendono sempre più la parola su quello che è il discorso contemporaneo sull’Islam.

Femminismo islamico e società islamica

D. Questo attivismo all’interno dei gruppi islamisti, ma anche le teorie e le pratiche sviluppate all’interno del femminismo islamico come vengono percepite all’interno del resto dell’islam? La vita di queste donne, ad esempio, è a rischio per le loro idee e per il loro modo di essere?

R. Bisogna fare di nuovo delle distinzioni tra islamismi, posizioni di genere all’interno dei gruppi islamisti e femminismo islamico anche rispetto alla ricezione di questi fenomeni. Le posizioni portate avanti dalle femministe islamiche sono molto più radicali come rivendicazioni.
Faccio l’esempio di una di quelle donne che è considerata un’icona del femminismo islamico che è Amina Wadud, afroamericana convertitasi all’islam negli anni ’70 che nel marzo del 2008 ha condotto per la prima volta una preghiera mista mettendosi a capo di una comunità composta da uomini e donne, e ricoprendo per la prima volta, da donna, il ruolo di Imam, cosa che nell’Islam non può essere assolutamente accettato (o quanto meno non è assolutamente accettato che le donne possano guidare la preghiera anche per uomini e non solo per altre donne).
Il gesto di Amina Wadud è stato criticato e considerato inaccettabile dalle islamiste, ma anche da qualche femminista islamica, come la marocchina Asma Lamrabet che sta portando avanti in Marocco un lavoro esegetico molto interessante. Ma Amina Wadud è stata criticata soprattutto dalla stragrande maggioranza dei musulmani, sia nei paesi della diaspora che nei paesi a maggioranza musulmana. Il suo gesto è stato sentito troppo provocatorio, troppo in avanti.
Detto questo, le femministe islamiche stanno in qualche modo portando avanti un discorso che è ancora minoritario e di élite, sicuramente anche per la loro composizione – penso soprattutto alle teologhe e alle accademiche – però hanno una ricaduta nella società: i discorsi che queste donne fanno sono discorsi che, anche se non in toto, in qualche misura vengono accettati da larghi strati di popolazione musulmana, o comunque innescano dei dibattiti molto vivaci e interessanti all’interno del mondo islamico e soprattutto all’interno del discorso riformista islamico.
Questa capacità delle femministe islamiche, di queste teologhe che stanno proponendo queste letture alternative del Corano, di avere una grande ricaduta, anche grazie ad internet, su diversi strati delle popolazione in diverse parti del mondo, espone molto queste donne agli attacchi delle forze più conservatrici del mondo islamico.
Amina Wadud, per esempio, per avere condotto questa preghiera nel 2008, ha ricevuto delle minacce di morte e ha dovuto vivere nascosta a lungo, insegnare nascosta e solo attraverso una webcam poteva interagire con i suoi studenti, affinché non fosse identificabile il luogo in cui lei si trovava, cosa che avrebbe rappresentato un rischio per lei, ma anche per gli studenti. Queste donne corrono dei rischi proprio perché vogliono parlare dei diritti delle donne e lo vogliono fare all’interno e non al di fuori del discorso islamico, arrogandosi il diritto di dire: io parlo in nome dell’Islam.
Penso ancora ad una donna turca, di nome Konca Kuris, che nei primi anni della sua vita aveva militato all’interno di organizzazioni islamiste nella galassia turca, e che però era sempre stata anche molto attenta ai discorsi del femminismo laico turco. Lei aveva proposto una serie di letture fortemente femministe dei testi sacri, e fu rapita da un gruppo terrorista, estremista turco, seviziata per 38 giorni, quanti erano gli anni della sua vita e poi fu ammazzata. Sappiamo delle sevizie a cui è stata sottoposta dal fatto che i suoi aguzzini non solo l’avevano torturata e ammazzata, ma avevano anche nascosto insieme al suo corpo anche un video che testimoniava delle sevizie subite da questa donna. Questo ci dà proprio l’idea di come cercare di portare avanti dei discorsi radicali all’interno dell’Islam, che vogliono colpirne proprio le forze più retrograde ed integraliste, ponga queste donne davanti a dei rischi altissimi.

Le ragioni di un ritorno alla religione: spiritualità, postcolonialismo e “guerre umanitarie anti-islamiche”.

D. Per noi donne occidentali è impressionante l’idea che una lotta così radicalmente femminista possa essere portata avanti all’interno di riferimenti religiosi. La nostra abitudine mentale è pensare una laicità sostanziale di questo tipo di battaglie. Tu invece parli di una religione diventata quasi uno strumento di liberazione per queste donne. Ma in che senso la religione si sta riposizionando all’interno della vita di molte donne musulmane grazie proprio al femminismo islamico?

R. Forse accade ancora prima del femminismo islamico. Dal finire degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta, sempre più donne riposizionano la religione all’interno della loro sfera privata, ma anche della loro sfera pubblica. Ciò accade per un bisogno di spiritualità e religione che era un po’ stato negato nel corso del Novecento, ma penso anche per ragioni di natura politica, e penso in particolar modo al fallimento delle grandi ideologie socialiste, marxiste, a cui in diversi paesi varie donne, varie femministe, avevano fortemente creduto. Penso anche al grande fallimento che molte donne si sono sentite addosso, dei regimi del post-indipendenza che avevano appoggiato, per cui avevano lottato, per i quali avevano perso i loro casi. Queste donne hanno visto tali regimi corrompersi, negare completamente le loro aspettative e i loro sogni di giustizia sociale nel paese e di giustizia di genere.
E poi penso anche a tutto il sentimento di frustrazione che i popoli arabi musulmani provano per questioni come il conflitto israelo-palestinese o anche gli interventi militari occidentali in varie parti del mondo islamico, Iraq e Afghanistan in particolare.
Tutti questi fattori hanno fatto sì che la religione diventasse per queste donne un elemento sempre più importante nella loro vita, come bisogno identitario, di riappropriazione della propria identità.
Dopo l’11 settembre questo discorso di riposizionamento dell’Islam è stato ancora rafforzato. Di fronte agli attacchi che il mondo musulmano riceveva in toto per quanto successo a New York queste donne si sono sentite di condannare gli attacchi terroristici e di considerarli anti-islamici, ma anche dall’altra parte di difendere in qualche modo l’Islam, di sentirsi di appartenere a quell’identità. Penso all’intervista che ho fatto con una ragazza malesiana di un’organizzazione che si chiama Sisters in Islam, e lei mi diceva:

“Fino all’11 settembre la mia vita di musulmana era legata a pochi momenti della mia esistenza: la nascita, il matrimonio, la morte. Dopo l’11 settembre mi sono invece sentita chiamata in causa come musulmana. Dovevo scegliere da che parte stare e a un certo punto ho sentito il bisogno di scegliere di difendere la mia religione. Difenderla dagli attacchi interni, che sono quelli delle forze estremistiche e terroristiche dell’islam, ma di difenderla anche da tutti quelli che sono gli attacchi e i pregiudizi occidentali. Avevo bisogno di un discorso femminile e femminista in cui riconoscermi, e non era più per me quello laico, e secolare, ma avevo bisogno di un femminismo che si iscrivesse all’interno di un discorso religioso. Nel femminismo islamico ho trovato il mio discorso. Ho trovato strumenti per battermi contro ad esempio la poligamia. Mio nonno era stato un poligamo, e questa cosa aveva portato grandi sofferenze alla mia famiglia. Il femminismo islamico mi permette di essere contro la poligamia e femminista senza rinunciare all’Islam."

Un’alternativa possibile o una sospensione tra due mondi?

D. L’immagine di queste donne appare quindi come sospesa tra due mondi, in reazione rispetto a due mondi.
Da una parte è in opposizione rispetto all’idea dell’universalismo dei diritti umani come portato occidentale che offre l’unica strada possibile per la liberazione femminile, e dall’altra è una reazione alla lettura patriarcale del mondo islamico. Ma la tua opinione profonda, dopo che hai conosciuto così tante donne vicine a questo pensiero e studiato così a lungo questo fenomeno, è che queste donne siano in qualche modo schiacciate tra questi due mondi o pensi che il femminismo islamico possa essere veramente quella chiave in grado di elaborare una strategia di fuoriuscita da questi due schemi?

R. Mi sembra che sia un’alternativa possibile. Non penso che sia la sola, nel senso che sicuramente le donne che si stanno battendo nel mondo islamico da una prospettiva laica e secolare hanno delle forti ragioni e la loro battaglia è molto importante. Quello che però ho visto nelle mie ricerche è che questo tipo di femminismo è sempre meno seguito e sentito dalle persone. Invece mi sembra che il femminismo che parte da un discorso religioso riesca a trovare molti più consensi e la disponibilità per molte donne, intima e personale, di fare i conti con un discorso femminista che parte anche da un discorso religioso e culturale. Il femminismo islamico non solo intercetta il bisogno di religione di alcune donne, ma risulta anche uno strumento molto efficace per potere entrare all’interno di quell’islamizzazione del discorso pubblico e politico che oramai è imperante in gran parte delle società musulmane.
Il femminismo islamico ha gli strumenti per scendere sullo stesso terreno delle forze più conservatrici e retrograde, per parlare lo stesso linguaggio, e su quel terreno e con quel linguaggio battersi per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna.

Una geografia (anche diasporica) del femminismo islamico

D. Un’ultima domanda: è possibile tracciare una geografia del femminismo islamico? Quali sono i paesi in cui in questo momento questo fenomeno è più sviluppato? E, soprattutto, per le donne in diaspora questo fenomeno quanto esiste e, se esiste, si trova solo a un livello intellettuale ed elitario di alcune pensatrici, o anche al livello più diffuso delle tante donne migranti che hanno dovuto lasciare il loro paese, la loro famiglia, e magari cercano di ritrovare nel femminismo islamico una forma di identità che non rimanga schiacciata tra il vecchio e il nuovo mondo che vivono?

R. Il femminismo islamico nasce negli anni Novanta contemporaneamente in diverse parti del pianeta - in Iran e negli Stati Uniti, in Sudafrica e in Marocco - come espressione di una serie di processi storici e politici che erano in atto, pur con le dovute differenze, un po’ ovunque.
Accanto a questo va detto che ci sono dei poli che sono stati maggiormente produttori di un discorso relativo al femminismo islamico: penso all’Iran, un paese dove l’islamizzazione del discorso politico era totale e imperante e che quindi per le donne alla fine l’unica vera possibilità per interagire e far breccia nella situazione del paese era discutere su un terreno islamico.
Parallelamente, come dicevo, il movimento appariva e si sviluppava anche in paesi della diaspora islamica o in paesi occidentali in cui il numero di musulmani sta crescendo non solo per l’arrivo di immigrati, ma anche perché sono sempre più le persone che si convertono all’Islam, sia uomini che donne, e questo è un dato interessante perché il femminismo islamico sta parlando molto ai nuovi convertiti e alle nuove convertite all’Islam.
E quindi vediamo che le battaglie assumono chiaramente delle differenze da contesto a contesto avendo una comune struttura di riferimento che è questo discorso femminile condotto all’interno di un discorso religioso. Le battaglie delle donne marocchine fatte negli anni Duemila per la riforma del Codice della famiglia sono ovviamente ben diverse dalle battaglie delle donne degli Stati Uniti che si battevano contro i pregiudizi occidentali sull’Islam o per un accesso alle moschee uguale per gli uomini e per le donne e per spazi di preghiera rispettosi anche della spiritualità femminile. Quindi abbiamo battaglie che nei contesti locali sono molto differenti ma che dialogano da una parte all’altra. Per esempio, la riforma del Codice della famiglia marocchina nel 2004 è stata salutata come un grande successo per tutto il mondo musulmano, ed è stato considerato una delle migliori implementazioni del discorso femminista islamico, perché si è riusciti a riformare un codice di legge sulla famiglia che era ingiusto verso le donne grazie e un’interpretazione nuova e progressista dei testi sacri e in particolare del corano.
Quello che è successo in Marocco è stato poi ampiamente discusso da diversi gruppi di donne e di femministe in diverse parti del mondo. Le Sisters in Islam, questa organizzazione malesiana, ad ad esempio ha inviato delle donne marocchine che erano state molto attive nel processo di riforma del codice della famiglia, per spiegare come era stato possibile riformare in questo senso un Codice di legge senza allontanarsi dall’Islam. Questo movimento dialoga fortemente, e lo fa sia materialmente che, molto di più, virtualmente, grazie ad internet. Internet è infatti una delle grandi sorprese di questo tempo. Sappiamo che la comunità islamica transnazionale utilizza molto internet per dialogare, e lo fanno anche le femministe islamiche. Sul web troviamo una pluralità di siti di femministe islamiche, o contenitori di coumenti sul movimento, penso ad esempio al sito Women Living Under Muslim Laws. Il web è pieno di materiali che le femministe islamiche scrivono perché vengano letti da loro omologhe che vivono in altre parti del mondo, o di reti come il Gruppo Gierfi (Groupe international d’études et de réflexion sur femmes et Islam) che fa capo ad Asma Lamrabet ma che vede donne di vari paesi musulmani perteciparvi.
(a cura di Alessandra Sciurba)

[ lunedì 8 marzo 2010 ]